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Nel 1931 William Butler Yeats, già Nobel per la letteratura, poeta più autorevole del proprio tempo, icona d'identità irlandese, incontra il maestro indiano Shri Purohit Swami. Ne è affascinato e ne fa, per così dire, il proprio guru personale, chiedendogli di istruirlo sui recessi dell'antica spiritualità dell'India. Il lavoro compiuto insieme è proficuo: Yeats firma un'introduzione a The Autobiography of an Indian Monk (1932), il libro dell'amico, e allo Yogasutra di Patañjali. L'affinità intellettuale culmina nell'autunno del 1935 quando il poeta e il mistico si ritirano a Maiorca per tradurre The Ten Principal Upanishads. Il testo – fondamentale per comprendere il pensiero induista – è al cuore dell'opera dell'ultimo Yeats, che dalla sapienza indiana trae linfa per le ultime, abissali poesie. A Yeats, soprattutto – culmine di un immaginario fatato e fatale coltivato fin da ragazzo – attrae l'idea del poeta-mago, della parola-sortilegio capace di agire sulla struttura illusoria della realtà. Il canto, come dire, è continuo incantesimo. Per la prima volta in italiano, i testi più importanti della spiritualità indiana nella versione del più importante poeta inglese del Novecento