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Una rilettura dell'opera verghiana attraverso la cucina dei suoi protagonisti: i contadini siciliani. Una cucina semplice, quasi archetipica in cui il principale condimento è la fame. Una fame atavica. Pensiamo a quel pane reso "verde" dalla muffa che consuma il povero Jeli al seguito di un gregge che non è il suo. Pensiamo alla mitica zuppa di fave, il cui profumo pervade non soltanto le novelle "rusticane", ma anche i due romanzi, I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo. Un cibo, questo, quasi "trasversale", che accomuna un povero cristo come Alfio Mosca ad un arricchito Don Gesualdo Motta. Per non parlare delle tanto amate acciughe, cibo cult che i Malavoglia sognavano nelle lunghe annate di carestia. Fave, cipolle, acciughe, verdure, pane "nero" sembrano i grani di un rosario profano che ripeteva sempre la stessa triste litania alimentare. Siamo lontani mille miglia dalle prelibatezze barocche delle corti palermitane, dalle opulente ed estrose creazioni culinarie dei "monsù" francesi, al soldo dei Borboni. Nei menù "verghiani", infatti, non compaiono né i timballi, né i sartù, né le cassate o i cannoli tipici della cucina siciliana "ricca", ma antichissime ricette del territorio, veri e propri "fossili viventi". Coraggiosa sfida ai menù da "villaggio globale"