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Vittorio Alfieri dette nuova vita, nella seconda metà del Settecento, al teatro tragico italiano, latitante da tempo sulle scene. Un teatro dove «gli uomini debbano imparar a essere liberi, forti, generosi, amanti della patria, ardenti, retti, magnanimi», con riferimento anche alle condizioni di un'Italia sottomessa al giogo straniero. Al centro dei fondamentali motivi-guida della sua complessa poetica tragica sono i tiranni, proiezione e strumento temibile e terribile del male e della perversità, quali forze oscure che travalicano la ragione umana. Un concetto che in alcune opere si allarga ai conflitti del cuore e della mente, della ragione e del sentimento, ma sempre in un'ottica che vede la ribellione dell'individuo contro le forze del male, la lotta dell'«innocenza oppressa» contro la tirannide del destino. Al di sopra di questi conflitti si eleva il drammaturgo, con la sua inviolabile libertà di pensiero e di azione e cui Alfieri attribuisce il compito di indicare agli spettatori la strada verso la coscienza civile.