Vivere insieme la fine del mondo. La grazia dell'apocalisse

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By Martin Steffens

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La fine del mondo entra spesso nelle conversazioni e nelle paure di tutti, sollecitata da periodiche profezie e bislacche superstizioni così come da sconvolgimenti ambientali e diseguaglianze sociali. Questo libro, tuttavia, non intende relegare l'apocalisse a discorsi allarmisti o moralisti. Perché la fine del mondo, guardata da vicino, parla all'uomo dei suoi desideri più intimi. E può diventare «grazia» nella misura in cui ciascuno converte il suo sguardo all'essenziale e riscopre lo splendore e la forza della vita accolta come dono. Il filosofo francese traccia un'arte del vivere, per una sfida che ogni persona è chiamata a osare: decidersi a favore della vita e di essa prendere tutto, anche quello che, concludendola, la aprirà su qualcosa di più grande. RINGRAZIAMENTI Non oso associare delle persone a questo libro, neppure per ringraziarle, nel timore di implicarle ingiustamente in un'opera che troveranno magari eccessivamente imperfetta. Ma alcuni dei pensieri che formulo qui, li devo al dialogo, costante o puntuale, che mi lega a loro. Mi sia quindi permesso di ringraziare, per il presente libro, Julien Grandjean, Pierre Dulau, Thierry Formet, Bruno Masala, Catherine Conrad, Reza Moghaddassi, Jérôme Decossas, Nicole Steffens e Denis Acker. Grazie ad Anne, per la sua rilettura, e grazie anche a Gabriel Raphaël Veyret. ESTRATTO DAL PRIMO CAPITOLO «LISBONA 1940» COSA NASCONDE LA FESTA Forse avete letto Lettera a un ostaggio di Saint-Exupéry. Mi ci sono imbattuto per caso. Il libro mi aspettava, lì, nell'edizione originale, con le sue macchie di umidità, l'odore di carta vecchia e qualche pagina pronta a volarsene via. Da chi l'ho ereditato? Da quale bancarella all'aperto, vendita di usato o solaio l'ho salvato? A questo libretto, Antoine de Saint-Exupéry affida i ricordi della sua partenza per gli Stati Uniti dopo aver bombardato invano per due mesi l'artiglieria tedesca. Siamo a Lisbona nel dicembre 1940. Della città portuale, Saint-Exupéry dice che era «una specie di paradiso chiaro e triste»1. Paradiso, perché bisognava scongiurare la catastrofe a forza di sontuosi festeggiamenti. «Guardate come sono felice, diceva Lisbona, serena e bene illuminata». Chi si abbatterebbe su tanto buon umore? Chi sporcherebbe con bombe grossolane le opere d'arte di cui Lisbona si è ornata? Chi potrebbe turbare una festa così bella? «A Lisbona, si metteva in scena la felicità, nella speranza che Dio ci credesse». Leggendo quest'ultima frase, mi è parso chiaro che tale preghiera, ridicola e triste, è quella del nostro tempo. Lo sappiamo da quando Philippe Muray ci ha ribattezzati Homo festivus: siamo presi nell'ingranaggio di un'immensa campagna di divertimenti. Tutto è pretesto a festeggiamenti. Festa del cinema, delle scienze o della bagnacauda. Festival di Cannes, Coppa del mondo e Sagra del paese. Primavera dei poeti, Primavera degli studenti, dei ceramisti e delle strade. Perfino la Primavera dell'inverno, se per caso ci mancassero i pretesti... E dietro alla festa, accovacciata come sa stare solo la paura, la speranza che il mondo, nella sua defezione, ci risparmi. «Gli innocenti vengono risparmiati più facilmente» sussurriamo tra noi. Perciò, confondendo innocenza e spensieratezza, ci diamo da fare per procurarci un doping di umore festivo. Come a Saint-Exupéry a Lisbona, anche a me succede di passeggiare in mezzo alla festa «attraverso i successi di questa mostra del buon gusto estremo, in cui ogni cosa sfiorava la perfezione, perfino la musica, discreta, scelta con tatto, che scorreva dolcemente sui giardini, senza eccessi, come un puro canto di fontana. Chi avrebbe osato distruggere nel mondo questo meraviglioso senso della misura?». Oggi la dismisura festiva ha sostituito il...
Vivere insieme la fine del mondo. La grazia dell'apocalisse