Un giornalismo per uomini vivi

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By M. Laura Conte

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Un interessante e documentato studio sul settimanale «Domenica», per capire come, anche nel tempo dei new media, ciò che rimane costante nel percorso di un giornale di cultura è la centralità dell'umano, con il suo complesso e irrinunciabile bisogno di verità. ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE 1. La società plurale e il suo bisogno di media Sommersa dai media: quest'espressione rubata a un esperto americano appare particolarmente adeguata a descrivere la società in cui oggi viviamo. Perché dice bene della presenza massiccia e pervasiva di old e new media, innestati in forme e modi diversi in ogni istante delle nostre giornate. Dallo smartphone, in grado di aprirci – con un polpastrello che sfiora uno schermo – una finestra sull'oceano di Internet, alle ultime notizie che sfilano oggi anche sul display del telefono fisso di casa o nei grandi schermi delle sale d'attesa in aeroporto e in autogrill. Una tale inondazione di informazione, capace di raggiungerci ovunque, di portarci l'universo mondo in casa senza tregua, e d'altra parte la nostra ricerca dell'attenzione dei media per affidare loro le nostre notizie, le nostre opinioni, il lancio degli eventi di cui siamo promotori (basti pensare a come si moltiplicano oggi gli uffici stampa che servono a incalzare a loro volta i media), sono l'espressione più concreta e manifesta di un bisogno nostro e della società in cui viviamo: è la nostra particolare società che chiede i media, ne ha bisogno a tanti livelli. Siamo inseguiti dai media almeno tanto quanto li cerchiamo e ne abbiamo bisogno. Un fenomeno che, se viene analizzato freddamente, appare intrecciato strettamente alla natura stessa della nostra società, una natura plurale. L'aggettivo plurale non è un semplice sinonimo di molteplice, ma rimanda alla struttura dinamica della società, alla sua complessità, alla sua composizione articolata che urge e chiede di essere detta, di essere raccontata. Essa, cioè, è costituita di vari soggetti in campo che, per rispondere al dato di fatto di essere tanti e diversi che vivono insieme, hanno bisogno di narrarsi in vista di un reciproco riconoscimento. Tale narrazione per il riconoscimento è senz'altro un processo complesso, articolato, dal quale nessuno può illudersi di chiamarsi fuori e al quale possono concorrere in modo rilevante e positivo i media. Detto in altro modo, tale complessità – che si traduce in una fitta trama di rapporti tra diversi, di vicinanze e contrapposizioni, di maggioranze e minoranze, di riconoscimento di diritti non sempre fondamentali, di incroci di culture e tradizioni – contiene in sé per ciascuna di queste componenti il germe del bisogno di conoscere e di essere conosciuta, quindi di dirsi, di comunicare e comunicarsi. Si può azzardare e sostenere che di media adeguati abbiano bisogno – in un certo modo li pretendano – le stesse relazioni-tensioni interne alla società, le sue tante anime. Che fiorisca dal cuore stesso dell'identità complessa della società plurale la domanda di media, cioè di strumenti utili e per certi versi indispensabili per il racconto di sé: un racconto necessario per provare a spiegare e quindi conciliare le tensioni interne, per arrivare a contribuire alla costruzione di un'armonia, una coesione sociale, che qualcuno non teme di chiamare vita buona personale e comunitaria. Ma quanto incidono i media nella formazione dell'idea di bene comune? Sono davvero in grado giornali, radio e televisione di influenzare l'idea di uomo che anima il tessuto di una società? Se sì, in che misura? Con quali strumenti? Per caso, per un intrecciarsi caotico di avvenimenti, sensibilità e riprese o secondo un disegno prestabilito, un progetto predefinito? Nell'epoca delle...
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