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L'opera di William Butler Yeats – l'ultimo dei romantici, l'artista che ha drenato e rivivificato i fermenti della décadence, il primo, in più di un senso, dei moderni – si sviluppa aggiogata con estro e piglio unici a una ricerca interiore strettamente collegata alla tradizione ermetica. Alchimia, occultismo, astrologia, folklore, miti e leggende: nulla di ciò che è arcano gli è estraneo, e dietro l'ostensione conclamata delle dispute amorose, delle lotte politiche, delle battaglie teatrali, dell'inesausto certame poetico, una vena esoterica innerva quasi ogni suo testo e più di un gesto. Con candore inaudito, Yeats ha osato prospettare una lega di arte e vita, una pietra filosofale dell'arte. Perno della compagine sono i saggi qui proposti, che concepì – e battezzò – come «mitologie»: con la veemenza, lo smalto e l'irrisione che caratterizzano i suoi versi, esprimono il cimento di un artista che non teme di mettersi alla prova «alle Termopili». E il lettore incontrerà alcuni capisaldi di uno spericolato modus operandi: la via del camaleonte, la dottrina delle maschere, la disciplina eroica dello specchio. Così, in pagine narrativo-speculative ineguagliate per forza, forma e contenuto, è dato ancora leggere la prosa inglese ritmica più bella dall'antichità, «una prosa a diamanti scheggiati che con l'andar degli anni accresce la sua luce» (Elémire Zolla).