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Scrive il profeta Amos: «Come un pastore salva dalla gola del leone due zampe o un brandello d'orecchia, così saranno salvati i figli d'Israele». In questa paradossale immagine di un'esile salvezza tra le fauci della rovina è il centro delle riflessioni di Sergio Quinzio, «credente nella verità cristiana sine glossa», che nelle pagine di questo libro si spinge a «farsi le più difficili domande circa la fede, quelle che non avrebbe mai osato». Nulla di più estraneo, dunque, a quel cristianesimo oggi corrente che si presenta come «rilancio mondano di ogni genere di trionfali sacralità». Qui, al contrario, l'insistenza sulla speranza lungamente delusa, sulla contraddizione non sanata, sul dolore irrecuperabile e sulle devastazioni della morte avvicinano Quinzio al più temerario discrimine: quello fra l'invocazione del Regno e la blasfemia. Simile, qui più che mai prima, anche per la forma spezzata, aforistica, narrante che la sua prosa assume, a certi maestri chassidici, insieme tenerissimi e violenti, che erano pronti a insultare Dio pur di non diminuirne in nulla l'incombente, oscura e impenetrabile maestà, Quinzio ha raggiunto in queste pagine la massima esasperazione dei suoi temi, scrivendo una testimonianza che spicca nella sua solitudine.