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«Ho sempre considerato Cesare Pavese un mio fratello maggiore. Fin dal primo momento, quando un nasuto spilungone magro magro, la faccia ossuta, quasi equina, e la sigaretta pendula dal lato sinistro della bocca, m'è apparso davanti. Ci sono incontri in cui misteriosi enzimi planano da una persona all'altra e le legano, immediatamente, in una sorta di patto clandestino per la vita. (...) Negli anni più duri della Resistenza, nel 1943-1944, è probabile che al Santuario di Crea, nel Monferrato, Cesare Pavese abbia cercato conforto nella religione degli antichi padri. Credo che abbia anche fatto la comunione, forse in uno di quegli improvvisi, non resistibili ritorni di fiamma della fede degli anni d'infanzia. Un'esperienza piuttosto rara fra gli intellettuali molto consci di sé, della propria cultura, superbamente chiusi nella famosa torre d'avorio, pronti a turare i buchi dell'universo con i loro berretti da notte. Esseri così pieni di sé non possono capire né certamente hanno esperienza della notte mistica di Pascal, notte di sangue e fuoco, né possono comprendere lo struggimento di Pavese che, ormai non lontano dalla cameretta dell'Hotel Roma in cui si suicidò il 27 agosto del 1950, ricordava i giorni dell'infanzia, quando si proibiva di deglutire per non infrangere la regola del digiuno prima di ricevere l'ostia consacrata» (Franco Ferrarotti).