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Scritto nel 1951 in occasione della ricorrenza dei duecentocinquant'anni di un ginnasio viennese, e muovendo dal presupposto che la filologia classica – una scienza il cui oggetto sono le opere da cui ci separano più di duemila anni – debba giovarsi del contributo di altre discipline, Karl Dienelt, discepolo di Viktor Frankl, legge nei poemi di Omero un inaspettato esistenzialismo nell'accezione del noto fondatore della logoterapia. Da una parte ci sono gli dèi immortali, dall'altra gli eroi, mortali e consapevoli, come Achille, della propria fine. «La finitezza dell'uomo non costituisce un momento dell'essere che lo privi di significato, ma al contrario essa è basilare proprio per il significato dell'umana esistenza. "Nella limitatezzadel tempo e dello spazio terreno l'uomo deve compiere qualcosa conscio sempre di essere mortale e tenendo ben presente la propria immancabile fine"». Forse il contributo di Dienelt non è filologicamente impeccabile, ma è indubbio che coglie un aspetto del fascino che gli eroi di Omero hanno sempre esercitato: il mortale Achille rimarrà immortale nella coscienza degli uomini, perché in lui essi vedranno rispecchiata la propria perenne tragica grandezza.