L'Esorcista

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By Danilo Arona

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Concentriamoci su un semplice dato di fatto. Che vogliamo esprimere con un linguaggio "basico". Ma tant'è: L'esorcista è un film che fa paura (e continuerà a farla negli anniversari a venire). La paura che, nel grembo di un cinema, ti fa ricordare che hai due palpebre. Due schermi di carne che possono abbassarsi e vigliaccamente rinnegare l'attesa della Cosa. Già: l'attesa e la Cosa (vista e non). Su questi due pilastri William Friedkin costruisce, in The Exorcist, la sua poetica orrifica. Una poetica da cui emerge la precisa volontà – come più volte ebbe a dire lo stesso regista di Chicago – di narrare eventi inesplicabili con l'inchiostro del realismo. E il risultato è una trionfale e disturbante rappresentazione del dubbio. Perché quegli atroci fatti a Georgetown? Cos'è che li provoca? Qual è la natura della mutazione fisica di Regan? È un caso estremo degno di un trattato di medicina psicosomatica? O c'è lo zampino del diavolo? Probabilmente... Ma nel film è assai più forte la mancanza di informazioni e di risposte, e molto più presente l'ambiguità, lo spazio lasciato alla platea per cucire assieme e motivare in proprio i pezzi angosciosi della vicenda metropolitana. Sta in questa declinazione sfuggente dell'attesa e della Cosa la forza dell'Esorcista. Una forza visionaria modernissima. La stessa che anima l'horror hongkonghese di oggi.
L'Esorcista