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Figure angeliche, di natura divina benché non prive di umane passioni e terrestri debolezze, popolano le novelle dell'«Infanta sepolta». Nei panni di adolescenti madonne e di alati vecchietti, di amici lunari, principi delicati, amanti perduti grevi di profezie e stranieri ammantati di funebre dolcezza, tali figure emanano e dispensano la grazia fra i viventi, che le colmano di una gratitudine e di una venerazione senza nome. Messaggeri di un'esistenza strana e remota, riflesso di antiche e sconosciute percezioni, gli angeli della Ortese sono dunque gli artefici di una amorosa trasfigurazione del mondo di cui è testimone e partecipe la stessa autrice – e la sua «espressività», segno tangibile di una vocazione insieme sapiente e istintiva, annuncia fin d'ora i futuri traguardi di invenzione e di stile.
Così appare all'occhio di oggi la seconda silloge di novelle di Anna Maria Ortese – nonché il suo secondo libro in assoluto –, prezioso documento della sua giovinezza letteraria e di una scrittura già caratteristicamente irrequieta e visionaria, incapace di rispettare i confini del visibile, e incline a mescolare memoria e immaginazione, riflessione e fantasticheria, racconto e sogno. E su tutto domina il timbro di una inconfondibile voce: insieme tenera e grave, di cupo splendore, la cui nota dominante è il dolore per la lontananza e la perdita (di luoghi, persone, oggetti cari, affetti), e che si ritroverà, immutata, nei capolavori della scrittrice.