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Parlare a bassa voce, in un indefinito punto dello spazio e del tempo, a metà strada tra l'alto e il basso, il dentro e il fuori, i vivi e i morti, usando e diffidando insieme del malfido sostegno di parole e di immagini; bandire i simboli, i linguaggi cifrati che alludono a un altrove ingannevole, o utilizzare solo il guscio vuoto, la superficie ruvida capace di agire ancora sull'immaginazione senza incanalarla verso una meta precisa: questo, e molto altro ancora sembra imporre l'etica della parola praticata da Jaccottet, e praticata appunto per via empirica, senza teorizzazioni esplicite, senza forzature. Ma la via empirica non esclude né la coscienza del proprio fare, né la conoscenza del fare altrui; sicché, non parrà poi troppo stupefacente cogliere, leggendo Jaccottet, l'eco di ciò che il pensiero poetico novecentesco ha elaborato di più alto, e persino di più radicale; l'eco, o meglio ancora la messa in opera concreta, in termini poetici. Detto in forma quasi blasfema: Jaccottet non scrive per i suoi critici, e neppure per il grazioso pubblico dei poeti.
Dalla prefazione di Fabio Pusterla
Dalla prefazione di Fabio Pusterla