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«Tutti gli scrittori sono viaggiatori del tempo per i quali nessun tempo è solo "presente" o "passato". Queste storie degli anni sessanta e settanta rimangono tanto care al mio cuore da costituire non solo una parte della mia carriera di scrittrice, ma anche molta della mia identità privata di persona.» In Storie americane Oates descrive il male, assieme fisico e sospeso, inafferrabile e senza via d'uscita, effimero e onnipresente, della società occidentale. Un male contro cui non si può reagire, come avviene per Connie, un'adolescente che si consegna a un teppista apparso alla sua porta per salvare la propria famiglia. Un male che paralizza, spiazza, sradica, come nel caso di suor Irene, la cui incrollabile fede verrà minata dall'incontro con uno studente schizofrenico. Un male che punisce colpe che sono tali esclusivamente per gli altri, come quella di Helen agli occhi del padre. Un male morboso e inquietante come quello nascosto nel lutto che lega in modo inestricabile Moira e Beatrice. Un male che crea conflitti e distanze tra mariti e mogli, padri e amanti, bianchi e neri, pazzi e «normali»; che scava vuoti colmabili unicamente con la violenza o il desiderio. Un male che può essere narrato ma non giudicato, raccontato in ogni sua espressione ma – come sembra dirci Joyce Carol Oates in queste pagine – solo entrandovi dentro, solo lasciandosene avvolgere, chiudendo dietro di noi la porta per abbandonarci interamente al buio.